Liber Salutis (2012)

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Canzoniere amoroso interamente redatto in endecasillabi e settenari, evidenzia forti legami con la tradizione stilnovistica (numerosi i rimandi a Dante, Cavalcanti e Guinizzelli) e una pesante eredità della poetica dello scarto (del Montale degli Ossi di Seppia e dello Sbarbaro dei Trucioli) impreziosite da qualche aulica celebrazione di matrice dannunziana. Opera della maturità e della perizia tecnica e stilistica, delinea un itinerarium mentis in Deum di acceso lirismo, in bilico tra rappresentazione e allegoria, tra sacro e profano.

PREFAZIONE
di Ottorino Stefani

Nell’Introduzione alla raccolta di poesie Incanti e cadute (Montedit, 2005), Marco Gottardi afferma che la sua visione del mondo, umano e creativo, e la sua concezione artistica nascono “da quel profondo dualismo inesorabile che genera sentimenti opposti”. Una dichiarazione di poetica nata nell’ambito della cultura postmoderna e che ritorna anche in questo Liber Salutis, opera che, a differenza delle tre precedenti raccolte, si configura come canzoniere e non come semplice silloge di poesie: canzoniere per le connessioni intertestuali, lessicali, sintagmatiche e stilistiche che ne arricchiscono la partitura formale; canzoniere per l’uniformità metrica che lo riguarda, con la scelta esclusiva dell’endecasillabo e del settenario liberamente alternati (i versi cardine della lirica italiana secondo una linea che dall’elezione teorica del De vulgari eloquentia passa per la canzone libera leopardiana e approda al primo Montale); canzoniere, infine, per quel suo tendere alla dimensione romanzesca, ossia per il disporsi dei componimenti in un continuum narrativo (suddiviso in quattro sezioni tematiche di 13, 7, 13 e 13 composizioni, per un totale di 46 pezzi, somma di numeri primi con 4+6=10, numero perfetto) il cui valore complessivo supera la somma delle singole parti.
Seguendo, dunque, le regole della forma canzoniere, Marco Gottardi riesce a penetrare, con spirito quasi sempre libero da legami esterni con il passato, la molteplice vita dei fantasmi fluttuanti della vera poesia: una poesia sorta sulle ceneri del Postmoderno e giunta, libro dopo libro, a esiti di vivace originalità. Recentemente è stato affermato che il Postmoderno è stato superato dal ritorno al Realismo: la vicenda creativa di Gottardi, in un certo senso, ha vissuto l’esperienza del Postmoderno con uno spirito realista, attraverso esperienze esistenziali legate a pulsioni inconsce e a stimolanti sollecitazioni culturali. La sua straordinaria operazione poetica si rivolge a un puntiglioso recupero (e a una risemantizzazione) della grande stagione della lirica due-trecentesca (Guinizzelli, Cavalcanti, Dante, Petrarca), proiettata in una sfera di suggestioni montaliane ed echi dannunziani: poesia colta, poesia che si nutre di altra poesia, poesia che cita, emula, maschera, allude e reinventa. Si colga un esempio di questo modus operandi dalla prima lirica della seconda sezione:

Ricordo ancora i giorni
della nostra vicenda:
era l’estate, ma non quella fredda
dei morti, era la nostra
un’estate diversa
quasi una primavera;
ci sorprendeva all’ombra dei cipressi
un guizzo di lucertole nei fossi,
un grido di fanciulli tra le messi
scagliato come un sasso
tra la quiete di un lago.

Si tratta di una visione radicata nella storia e nella memoria di un poeta veneto che rivive il passato come un eterno presente, con un linguaggio che diventa, secondo una formula heideggeriana, dimora dell’essere nel mondo. Accanto alla donna amata, Gottardi rievoca un’estate (non quella pascoliana “dei morti”) investita di luci primaverili all’ombra dei cipressi (e qui è Foscolo) e animata dal guizzo delle lucertole (memoria montaliana) e dal grido dei fanciulli (ancora Pascoli). Sono versi che contengono in nuce la poetica di Gottardi, fatta di citazioni colte, postmoderne (e tutto il canzoniere, del resto, è attraversato da continui richiami alla poesia, ovidianamente intesa come scrittura che parla), ma anche di meditate evocazioni della musicale dolcezza del paesaggio veneto. Un paesaggio vissuto come stagione della vita umana, dove gli innamorati prima sentono ardere nel cuore “estuanti estati”, poi si immergono nel malinconico autunno, quando le frecce d’oro delle foglie cadenti uccidono l’estate.

Sospesa fra deserti antelucani
apparivi talvolta a noi caduti
col tuo volto più vero:
albe ridevi e verdi valli e rivi
negli occhi avevi, eterna candidezza
di sé soltanto essente
in sé sola e per sé
da sola sufficiente […]

La donna (creatura sempre in bilico fra natura umana e divina, fra realtà e simbolo) è la verde valle della giovinezza, il candore perduto nei sentieri interrotti della vita quotidiana, quando la nostalgia dei primi amori ritorna in quella sua solare bellezza superbamente descritta dal Dante delle prime Rime:

Deh, Violetta, che in ombra d’Amore
ne gli occhi miei sì subito apparisti,
aggi pietà del cor che tu feristi,
che spera in te e disiando more.

Tu, Violetta, in forma più che umana,
foco mettesti dentro in la mia mente
col tuo piacer ch’io vidi;

nel momento della rievocazione Gottardi assume i toni di una giovanile freschezza, figurando quell’“incantamento” amoroso sognato da Dante nel famoso sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, dove nel magico “vasel” si passa il tempo a “ragionar sempre d’amore”.
L’immagine della fanciulla amata, pur nella trasfigurazione mitopoietica dell’immaginario lirico e narrativo (esplicitata anche nelle forme dell’operazione allegorica che la contempla, stilnovisticamente, come salute ovvero salvezza), torna anche nell’ultima parte del canzoniere. Si tratta di un congedo composto secondo una concentrata formulazione concettuale e stilistica, in perfetta sintonia con il contenuto esistenziale, estetico e musicale delle diverse parti dell’opera. Il poeta ricorda la donna con serena mestizia e con un tono velato di una melanconia di stampo aristotelico, evocante, cioè, una catarsi morale, ma interiorizzata nel “sublime matematico” teorizzato da Kant. Un sublime che ritroviamo spesso nei versi di Gottardi, un sublime che, lungi dall’inverarsi in sterile esercizio accademico o in virtuosismo stilistico, si adegua con limpida naturalezza alla materia e ai modi di un poetare le cui profonde radici risalgono a quanto enunciato da Dante nel XXIV canto del Purgatorio, esemplare definizione della poetica del dolce Stilnovo:

[…] I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando.

Montebelluna, 15 aprile 2012

Dalla sezione Apparizioni

Là dove l’erto crinale s’adima
già tenta l’abbrunato
profilo un parco bagliore: raggiorna.
Nel buiccio che addorme
tacciono disadorni
silenzi e un falbo raggio
invermiglia, raminga
e rara, qualche nube mattutina.
Un albore di croco t’indovina
in un torpido sonno
e ti culla soltanto
da glauche fronde il garrito argentino
di un aligero nunzio.
Scande l’usata strada l’astro ardente:
rimonta lento la sfera celeste
che stinge la punicea
veste e s’ammanta di un’aura d’opale.
Tornano i ritmi frusti
del giorno, torna repente il consueto
affannarsi che uguaglia,
e il quotidiano orpello che c’incrina.


Altra voglia ti desta a questa soglia
con placido sbadiglio,
né par ti dolga se al misero speglio
del nostro tempo un fioco
sembiante ti rivela,
quasi un’ombra tra fitta nuvolaglia.
E sei diversa da chi si ammaestra
a questa farsa, da chi si riversa
nell’impazzito corso dei rimasti
a terra e non s’avvisa
del tuo passaggio: è d’astri la tua strada
e non è che tra noi
per quella via si vada…


Se fòlgore ti reca a queste sponde
dove ciascuno sta
coi suoi segreti assorto
in un delirio d’immota ebrietà
(privato alienoloquio senza requie
rotto a tratti dal melico
soliloquio di un quieto moto d’acque
che sciaborda dal limite di un orto)
non altra luce a noi si manifesta
che squarci con argentea forza d’onde
questa attesa funesta, e la disveli:
in questo cieco carcere
sei l’atto che sublima,
il gesto che disancora
dal magma degli automi,
il segno che dischiude il sortilegio
e annovera alla schiera dei salvati;
ed ora che ridesti
immensa la vertigine
del mondo, scuoti dagli occhi la polvere
e il cuore libera dalla caligine
che appesta queste spire dove vivere
bisogna e appresta per noi il privilegio
dell’ultimo traguardo.


Se passi lasci strascichi d’immenso…


Ti annunci nell’assorto
indugio del meriggio come raggio
che trafigge, messaggio
cangiante di chimerica salvezza;
nel gioco dell’essenza
sei forma fievole d’avorio in vitrea
trasparenza, sei luce che profonda
la memoria in maliosa iridescenza,
fiammeo vestigio d’incauta bellezza,
gesto che s’indovina
fatale in questa immobile vicenda,
parola che rigenera
scivola in sogno, spare…

Dalla sezione Colloqui

Ridicoli relitti
i nostri dolci detti
scivolano come acqua
sui tetti e si acquattano
tra fitti sterpi di fatui pretesti.
«Resti?», chiedevi, «ancora un po’ e mi basti.»
«So che mi ruberesti»,
dicevo, «il cuore e il resto
di questa vasta estate senza gusto.»


Non era giusto amarci, ma era bello
a volte anche sbagliarci.
Spesso nei nostri passi
ho scorto i tempi assorti
dell’assenza inverarsi
con candida catarsi.
Ricordi? C’eravamo
persi quando giungemmo
al bivio di una via,
e la tua strada non era la mia.
«Addio», ti dissi, «se almeno sapessi…»
«Addio», dicesti, « se almeno tu fossi…»

E intanto il vento piegava i cipressi
sui nostri passi persi
e riarso il tramontare
si profondava immenso all’orizzonte…

Dalla sezione Assenze

Manchi in quest’arida ora di delirio
come il vento che brivida il pomario,
come l’aria che reca
vivo dai campi un grido di fanciulli.
Qui non è che si scampi
al filo degli eventi:
dove l’arsura stampa la consueta
trama, forma non è
che ci salvi da un vacuo
viluppo di memorie
fra cui si annida docile
la miseria di questa
nostra storia, confusa
farsa che non ti tocca…

Ma ancora ci sorprende
se t’invola la bocca
un presunto bagliare di silenzi.


Ti penso a volte persa in questo vuoto
ed è subito il nulla:
in quest’arido moto di devoti
senza volto, non perderti
ma saperti dei nostri
sarebbe la più triste
sventura per chi brama di saldare
il conto con la lama degli ex voto.
E dunque ci delizi la mancanza,
spenta reliquia della tua deità
che ti consacra al misero offertorio
di questa nostra storia
priva d’identità,
e non t’incresca il vanto
di questa fatua gloria:
del niente si ha più facile memoria.

Dalla sezione Testamento

Trascendimi, ch’io volga altrove gli occhi
e tu li miri, e fammi
vento, ch’io ti carezzi
il volto e tu mi tocchi
quando le mani giungi in mesta prece.
Trasumanare è il sogno che m’accora
e tu fanne repleta realtà
di luce in cui si scorga
l’idea che ci somiglia,
e fra tanto fulgore in te si colga
con nuova meraviglia
la mossa che disserra,
l’amore che c’impronta
e il senso e l’alto segno che c’insempra.


Intrecci trame come trine al vento,
mio spasimo, mio dolce pentimento,
nell’ora che di te lieve riveli
un miracolo d’astri
dal profondo dei cieli.
Anima mia, mia vita, mia salvezza,
divina spira t’invola in un fuoco
vivo tanto che il cuore
vinto sarebbe da tanto lucore
se il tuo celeste amore
al passo estremo possa non gli desse
di trasmigrare a così alto mare:
sili assorta pensieri d’assoluto
e nello sguardo schiudi la falotica
traccia di questa nostra occidua fama,
scortandomi con gli occhi
agli arcipelaghi del tuo sorriso
così che mi trabocchi
di desiderio l’anima
che tutta trema e te soltanto brama.


Avvinta in vivida veste di vento
lesta varcando ineffabili regni
trasognata discendi
e umano pianto, umana sorte ed ogni
vana cosa cui vacuo cuore agogni
da me dispare, e sfuma
nemboso il mondo come spettro in bruma.
Un canto schietto d’angelica schiera
s’irradia sempiterno
da luminosa spera
e ti fiorisce in petto
un palpito d’immenso:
a indicibile incanto
di dischiusi eldoradi
levavi oculos meos
diluviando tripudi
che eterna legge a eterna gloria elegge,
e fatto ormai dell’amoroso gregge
a te, nimbata ninfa
cinta da serto di tacite stelle,
rivolgo l’anima, la mente e il velle.