Un viaggio nell’altrove per ritrovare sé stessi

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Recensione a “Finistére” di Andrea Dei Castaldi

Difficile, e come sempre scomodo quanto inutile per ogni opera che si rispetti, etichettare l’originalissimo lavoro d’esordio dell’asolano Andrea Dei Castaldi. Ma sia: per gli amanti delle introduzioni a guisa di quadretto definitorio si dica pure che Finistére (Barta edizioni, 2014, euro 12 ) è soprattutto un libro sull’ineluttabilità delle azioni che legittimano i sentimenti. Un romanzo d’introspezione e di ricerca di un altrove, anelito per parole di un alterità supercosciente orchestrato, per così dire, su un codice binario che è un gioco di specchi, di rimandi, di doppi, e non solo perché il protagonista, Giona, ha perso in un incidente stradale il gemello Davide e ora quella sua assenza è una dolorosa presenza. Diario di una ricerca che è necessaria anche quando le risposte sono dentro di noi, perché, come diceva Goethe, “niente è più difficile da vedere con i propri occhi di quello che si ha sotto il naso.” Un racconto, quindi, di perdite che diventano ritorni, di scoperte che sono un perpetuo riconoscere e riconoscersi in qualcosa di già dato (ma non detto fino all’ultimo, fino all’atto svelatore), il tutto iscritto in un’equilibrata struttura circolare che alla fine torna al punto di partenza. Fra le pagine del libro si respira un’aria di fatalità che bilica di continuo fra le incertezze dei personaggi e il loro agire, che appare invece sempre preordinato a un fine, anche quando questo è ignoto alle pedine stesse che si muovono sulla scacchiera del destino. Né il confine tra volontà e fato, tra predestinazione e libero arbitrio (per dirla agostinianamente), è dato per netto al lettore, ed è proprio questo continuo sfumare tra logica e irrazionalità, tra senso e invenzione romanzesca, a innervare gran parte del fascino di cui si ammanta il libro. Che è in fondo, anche, un romanzo nel quale sentimenti e personaggi cercano in prima persona una loro definizione, che va componendosi lentamente come un puzzle, ossia pezzo per pezzo ma non necessariamente con ordine, anzi, proprio in una sorta di fatale casualità che lascia intravedere barlumi di senso, ma che solo a quadro completato renderà l’immagine chiara del tutto. Secondo un divenire che rappresenta, oltre alla ratio del microtesto (inteso come narrazione delle vicende dei singoli personaggi), anche il disporsi non lineare del macrotesto, ovvero la volontà dell’ars scribendi di svelarsi a brani giustapposti, in un intreccio continuo che solo all’ultima pagina si compone in un quadro definito e preciso. La narrazione, infatti, è continuamente interrotta, sfasata nella temporalità dell’affabulazione, procrastinata o anticipata, ma non per questo meramente costituita da pezzi autonomi e isolati, ché la trama, al contrario, è un ordito ben tessuto che lega ogni singolo evento o personaggio al più ampio insieme della storia nel suo complesso, la quale si nutre e cresce proprio in forza di queste sue particelle, trascendendole alla fine in un più alto piano narrativo che tutte le contiene e giustifica. Insomma, tout se tient. Contribuisce non poco alla buona riuscita di questo docile affresco narrativo una prosa fresca e piacevole (non lontana dal modello russo ottocentesco e incline a certo pavesismo latente), che si distende piana in una paratassi rassicurante, in un ritmo agevole e armonico che poggia su un lessico ampio, ricco e perfettamente selezionato in ogni sua sfumatura, capace talora di evocare leggero il sibilo del vento, talaltra di descrivere con piglio espressionistico un dettaglio colorito. Da leggere.