Le mani nella terra, la penna nell’Empìreo

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Recensione a “La Cesura” di Andrea Dei Castaldi

Arrivo ad Asolo in una fredda mattina di inizio gennaio vestita di un’aria pesante che chiama neve. Andrea Dei Castaldi mi aspetta per pranzo: ho appena terminato di leggere il suo nuovo romanzo, La cesura (Barta edizioni, 2015, euro 12) e gli ho fatto sapere che desideravo parlarne con lui il prima possibile. Un’ urgenza dettata dal forte impatto che il libro ha avuto su di me; tanto che, appena entrato in casa, non posso aspettare di sedermi a tavola e, mentre Andrea è ancora impegnato a sminuzzare due grossi mazzi di radicchio tardivo, inizio a raccontargli le mie impressioni. Gli dico che il romanzo è un gioiello, anzi, un capolavoro. Che è perfetto, calibratissimo, equilibrato e armonico, che non ha niente di più e niente di meno di ciò che deve avere. Gli dico persino che provo un pizzico di sana invidia per quella sua prova da narratore scafato e disinvolto. Merito di un ritmo complessivo che orchestra con soavità magistrale l’alternanza tra discorso diretto e narrazione, una cadenza che si fa quasi musica nel palpito della singola frase, incredibilmente identico (ma non per questo monotono) nelle misure brevi come in quelle più lunghe. Un respiro così calcolato da risultare naturale, senza forzature né orpelli, neppure dove Andrea riesce a rendere letterario, senza darlo a vedere (e questo è mestiere da grandi), un linguaggio colloquiale, che è poi la cifra di quel suo stile pavesiano ma del tutto originale, riconoscibilissimo da sùbito, al di là del superlativo lavoro di editing che si avverte chiaramente, anch’esso, però, immune dalla scomodità dell’intervento posticcio o deviante. Ma ciò che mi ha trafitto, continuo mentre Andrea lascia cadere nell’acqua bollente due generose porzioni di pasta corta, è la vividezza e la forza di una lingua che poggia salda su un’ossatura verbale materica, concreta, potente ma dolce, così piena che sembra appagare persino lo stomaco, senza saziare mai; una lingua plasmata, come mi dice lo stesso autore, con le mani sporche di terra, e capace comunque di creare passaggi di finissimo lirismo, così come di delineare un gesto o un particolare in poche ruvide e icastiche pennellate, con un’elaborazione del dettaglio che è cesellatura registica capace di indugiare il giusto su ogni frammento. La storia, poi, è splendida, una storia di vento e di confini, di ricerca e appropriazione di un passato mai posseduto, una vicenda intrecciata con un fitto gioco di rimandi (lessicali, tematici e persino metatestuali) ora più lievi ora più saldi, sempre opportuni e argutamente congeniali all’addobbo della trama, vivificata da una narrazione in prima persona al presente, un ‘qui ed ora’ che trascina letteralmente il lettore oltre le parole fin dentro le scenografie del libro, persino dentro il protagonista. Del resto, c’è poco da fare i critici: se la sera, alla fine di una dura giornata, appoggi un libro sul comodino dopo averne letto fino ad avere gli occhi pesanti, e fai per spegnere la luce, ma indugi, guardi il libro e, pensando “un altro capitolo e poi basta, dai..”, lo riprendi e ti ci rituffi dentro fin quasi al deliquio, allora vuol dire che quel libro è scritto bene, che quel libro va bene, che quel libro deve esserci, che esige e merita un suo posto nella letteratura come nella vita. Sono le parole che dico ad Andrea mentre do gli ultimi colpi di forchetta al mio piatto di pasta. Ci guardiamo. Il suo viso è acceso solo dal vacillare della fiamma nella stufa. Čajkovskij ci tiene compagnia mentre accendiamo la sigaretta del dopo pranzo. Nemmeno il tempo di finirla e ci accorgiamo della neve che sfarina lieve dal cielo grigio. Sgusciamo fuori di casa e camminiamo sotto quella pioggia di cotone, come personaggi di un libro. E siamo quasi felici…