Anime brevi è senza dubbio il romanzo più complesso di Andrea Dei Castaldi, che tuttavia conserva i tratti stilistici fondamentali dei due precedenti (Finistère e La cesura), non certo per pigra e pedissequa ripetizione di formule e stilemi sulla cui efficacia lo scrittore ha ricevuto riscontri confortanti che gli abbiano suggerito di non abbandonare la strada percorsa fino a qui, ma perché di tale espressività, di quella connaturata familiarità con il linguaggio e di quel calore quasi materico dal quale promanano la forza e la dolcezza della sua prosa, è costituita la sua voce, che è voce originalissima e immediatamente riconoscibile (ma non per questo scontata) che ogni volta scopre infinite varianti della sua stessa armoniosa modulazione, lasciandosi attraversare dai modelli senza mai cedere alla velleità della sterile emulazione, bensì innervando su quelli una lezione interiore che, proprio in ragione del suo riproporsi, si ravviva e si rinnova ad ogni prova.
Accade anche in questo nuovo lavoro, che si diceva essere il più complesso per diversi motivi: per il numero di personaggi, per l’articolazione dell’intreccio e, soprattutto, per la profondità e la caleidoscopica metamorfosi dei temi che lo sostengono, i quali, nella loro universalità (e quindi, anche, nella loro rabdomantica funzione di disvelamento di verità nascoste), riescono a presentarsi in sfumature che variano al variare del personaggio di volta in volta incaricato di proporli attraverso quella privilegiata forma di esegesi che è il proprio vissuto, la propria esperienza pregressa dalla quale scaturiscono le azioni del presente e, nel caso specifico delle Anime brevi, le mosse per determinare il futuro. Su questi movimenti umani, che lo scrittore racconta con vivido realismo senza per questo scadere in un banale revival verista, su questa scacchiera di sentimenti e impulsi, di speranze e delusioni, insomma, su questo fitto e intricato cruciverba esistenziale, per così dire, si palesano, talvolta di passaggio sopra una veloce battuta subito spazzata via dalle esigenze ritmiche della fictio narrativa, talaltra in maniera più radicale e immanente, i grandi temi di cui sopra, che sono, essenzialmente: il tema dei ricordi, il tema della colpa, il tema del destino. Essi, poi, deflagrano, come detto, scomponendosi in infinite schegge, in microtemi che, in alcuni casi, trovano persino il modo (è lo scrittore, naturalmente, a trovarlo) di combinarsi tra loro dando vita a nuovi macrotemi, i quali, ancora, si inverano o subiscono ulteriori, alchemiche contaminazioni nell’incontro-scontro con la vita dei diversi personaggi, sicché a buona ragione si è detto di un romanzo complesso, perché pur correndo su binari saldi e tangibili, pur restando fedele a se stesso dalla prima all’ultima pagina, il libro sa essere cangiante nelle prospettive da cui si fa leggere.
Per esempio, il tema del destino apre, soprattutto nel personaggio di Greta, a esiti sorprendenti, da intendersi nel senso di un’apparente adesione al fatalismo del personaggio che nasconde, in verità, un conflitto tra illusione (o malattia) e realtà, o meglio ancora tra illusione di potenza e realtà, tra volontà e destino; conflitto che fa il paio con quello macroscopico tra sentimento e ragione, vera e propria mina vagante nel romanzo, che in ragione e in presenza di esso si accende dei momenti più toccanti e intensamente evocativi. La realtà, tuttavia, può anche essere tutt’altro rispetto a qualcosa da creare o desiderare: essa diventa talvolta (come nel caso di Irene) un pericolo dal quale fuggire per non assecondare sentimenti ritenuti scomodi, e quindi il conflitto tra ragione e sentimento si determina anche nella vocazione al rifiuto, nella volontà di adesione a una realtà non reale, sicché si vengono a costruire innumerevoli varianti di un io che si decostruisce e si sfrangia in un tentativo, in ultima istanza, di resistere a una parte di se stesso, di disconoscersi, di non ammettere il cuore.
Il rovescio di questa posizione, invece, si materializza non nell’abdicazione e nel rifiuto del vero io, ma nell’ammissione di un sé, o di una parte di sé, di fatto inesistente, che, alla stregua di un simulacro o di un fantoccio serve a formulare compromessi, ad ammansire giustificazioni, finendo, però, nel medesimo tranello dell’infingimento che giocoforza respinge la verità per fare posto alla menzogna. Il conflitto, come si capisce, resta irrisolto, e in fondo è inutile “superare gli ostacoli e le difficoltà, se poi ci si trova a dover mettere mano a un mucchio di cocci”.
Il tema dei ricordi, del passato, è forse quello che più di tutti riesce a immillarsi in una quantità di volti e conseguenze (soprattutto narrative) decisamente eterogenea. Da esso irrompe nei personaggi il desiderio di conoscersi meglio attraverso l’accettazione e la netta definizione del tempo andato che sappia restituire qualcosa di simile a una verità solida. In altre occasioni, invece, il passato è matrice di dolore, genitura funesta di vergogna e repressione, è, pertanto, un cadavere maleolente da seppellire nell’angolo più recondito della memoria, ma per quanto si tenti di fuggire, di allontanarsi dai ricordi, è impossibile dimenticare. Il motivo è presto detto: i ricordi sono vita e non si può rinnegare la vita, non la propria, almeno. L’importante, come insegna Achille, nonno saggio che costruisce strumenti ad arco, è non farsi divorare dai ricordi, perché la vita presente è più vita della vita dei ricordi. Eppure sono proprio i ricordi a costituire l’asse portante sul quale corre, fantasmatico e pungente, l’altro grande tema di cui si accennava, quello della colpa, incarnato magistralmente da un personaggio apparentemente secondario che in un paio di comparsate restituisce il senso di una vita di pentimento ed espiazione. Dai ricordi, anzi, dal passato, emerge, anche contro la volontà dei personaggi, l’erba cattiva, quella che non muore mai, che punge con il senso di colpa, altro fortissimo motore che intreccia scelte di vita a loro volta figlie di un passato altrimenti condiviso e che tutti, in fondo, in questo romanzo corale e complesso cercano di aggiustare. E tuttavia nessuno riesce ad aggiustare alcunché, le vite di tutti si muovono “lentamente in una sola direzione, verso un luogo profondo e scuro”, cadono come in un domino mentre il destino, con un’indifferenza di ascendenza leopardiana, travolge tutti e lascia che tutti si travolgano reciprocamente. In tutto questo, il passato resta immodificabile, resta passato, e questa lunga giostra ferma la sua corsa di fronte all’ineluttabile sconfitta dell’io e delle sue fasulle mistificazioni. La maschera si rompe, e poco importa riuscire a riconoscersi, averci provato, “perché c’è ancora qualcuno che non sa che siamo fatti di vetro, che c’è sempre qualcosa che non si può più riaccomodare.”